«Nato a Cerreto Sannita in tempi ormai lontani, in cui in Europa dettava legge l’espressionismo e a Parigi si esibiva Mistinguett (mentre qualcosa di poco piacevole stava per avvenire a Sarajevo), Antonio Guarino, ha studiato a Milano sino alla maturità classica e poi all’Università di Napoli, ove si è laureato in Giurisprudenza nel 1936 discutendo una tesi di diritto romano con Siro Solazzi. Studioso del diritto di Roma antica, ma anche dei diritti moderni, è stato magistrato e avvocato. Dopo avere partecipato alla guerra nell’Unione Sovietica, è entrato in carriera nel 1942-43, in qualità di professore di Storia del diritto romano a Catania. Chiamato nel 1950 a Napoli, come ordinario, prima di Esegesi, poi a lungo di Istituzioni di diritto romano, quindi di Pandette, non ha voluto più distaccarsi da questo Ateneo.
Ha svolto anche, per decenni, attività di giornalista ed è stato senatore degli Indipendenti di sinistra nella settima legislatura (1976-1979). Poi ha lasciato tutto e si è concentrato esclusivamente nell’insegnamento e nelle biblioteche, sempre e soltanto a Napoli ….
Professore emerito, medaglia d’oro della Pubblica Istruzione, doctor h.c. di Aix-Marseille e della Complutense, socio della Pontaniana, della Società Nazionale e dell’Accademia dei Lincei.
Ha co-fondato e diretto le riviste Diritto e Giurisprudenza, Iura e Labeo. Le sue pubblicazioni di diritto romano, di vario diritto e di argomenti sociali o di attualità ammontano a una trentina di volumi e a un migliaio di articoli, oltre ai manuali di Storia del diritto romano (12 edizioni, sino al 1998) e Diritto romano privato (12 edizioni, sino al 2004)». Con il titolo Sodalitas, sono stati pubblicati, nel 1984, a cura di Vincenzo Giuffrè, nove volumi di studi in suo onore. Labeo gli ha dedicato nel 1967 un fascicolo in occasione del suo XXV anno d’insegnamento e quindi, nel 2004, il volume 50 per i suoi novant’anni. Lo stesso ha fatto Index con i volumi 11 del 1982 e 42 del 2014, quest’ultimo per festeggiare i suoi cent’anni.
Tranne che per qualche necessario aggiornamento, le righe che ho letto non sono mie. Sono tratte da due «schede», che ho fuso, scritte dal professor Guarino. La seconda intitolata Il «coccodrillo», con riferimento ovvio, ironico e soprattutto scaramantico, ai necrologi di persone illustri, preparati normalmente, però, da altri, quando sono ancora in vita e poi tenuti dai giornali nel cassetto, «pronti a ricorrervi nel giorno fatale». Il Professore la redasse e pubblicò lui stesso, a chiusura di un volumetto, Linee di tutti i giorni, che mi donò il 16 maggio 2006, giorno del suo genetliaco, «con vivo affetto. E con gratitudine – aggiunse – per avermela data da bere (Mme Clicquot)».
In altra occasione il professor Guarino ha scritto: «i miei biografi, vivaddio, non potranno astenersi dal sottolineare che io sono benvero napoletano e ci tengo, ma che nelle mie arterie scorre abbondante sangue sannita e cerretese. Vi scorre sia perché di quei luoghi era mia madre con tutta la sua famiglia, sia perché da quei luoghi venne a sposarsi a Napoli la mia nonna paterna, sia infine e soprattutto perché [nel 1914] a Cerreto Sannita io sono nato, giusta l’antica consuetudine, nel lettone della famiglia materna. È vero che a Cerreto io ci ho vissuto ben poco e che ho passato gran parte della vita tra Milano e Napoli; è vero che io sono, da buon napoletano, di tratti apparentemente tolleranti e talora anche sorridenti; ma sotto questa struttura, sappiatelo, il carattere mio è marcatamente sannita, cioè duretto o, come si usa dire ‘tosto’».
E quando, nel 1955, fondò Labeo – la rivista che ha illuminato cinquant’anni di vita degli studi romanistici nel mondo e che ha dovuto sospendere la pubblicazione nel 2004 per vicende complesse che altrove sono state approfondite –, nell’editoriale d’apertura affermò: «Il motivo per cui si è pensato alla figura di Labeone non è, si creda, quello di prefissare un ‘livello’ alla nostra Rassegna … È un motivo, semplicemente, connesso con una precisa e modesta indicazione locale. Labeone fu, un meridionale, di famiglia sannita, nativo, pare, dei dintorni dell’odierna Benevento.
Fu in questo nostro Sud dell’Italia (era Sud già allora) che Labeone forse studiò … E forse fu proprio nelle sue terre del Sud che Labeone usò ritirarsi per sei mesi all’anno ut … conscribendis libris operam daret. Forse. E sarebbe già sufficiente … Ma vi è di più. In Labeone osiamo ravvisare – e senza forse – alcune caratteristiche ancor vive, anzi più vive che mai, del giurista e dell’uomo di studi meridionale. In lui lo stesso amore, ma, ad un tempo, la stessa riluttanza per quella Roma, cui mille richiami, e non soltanto di affari, continuamente traggono, ma da cui, sempre che possibile, si secede, per ritornare al caldo clima di queste nostre inesplorate regioni. In lui la stessa spontanea disposizione all’inquadramento della vita quotidiana negli schemi della logica e del diritto. Ma, ad un tempo, lo stesso incontenibile trasporto verso l’uscita estrosa e la battuta vivace. In lui la stessa apertura dello spirito ad ogni nuovo sviluppo, ma, ad un tempo, la stessa remora di un saldo tradizionalismo di costumi. E finalmente, in lui, lo stesso culto per la libertà, quella vera, che si esprime nella capacità di sottrarsi, sia pur con sforzo, all’imperio delle altrui suggestioni e, sopra tutto, a quello delle proprie ambizioni».
Questo era Labeone. Ma, soprattutto, questo è stato (ed era difficile dirlo meglio che con le sue stesse parole) il mio maestro Antonio Guarino. Il grande romanista. Il terribile «Guaro». Il Professore che nella sua lunga vita ha formato generazioni e generazioni di giuristi, divenuti magistrati, avvocati, notai, giudici costituzionali, giornalisti o docenti, che a lungo hanno costituito (e costituiscono) il segno forte della fecondità del suo insegnamento professato in obbedienza assoluta a quella passione e a quell’impegno civile dell’educatore che lo hanno reso, per migliaia di giovani di un tempo, un mito.
Impegno, rigore e passione che egli ha in vario modo profuso in ogni momento e al di sopra di ogni altra considerazione ed esigenza, all’Università. E alla nostra Facoltà giuridica, di cui – in momenti di grande difficoltà per il Paese e per il sistema universitario, che aveva allora intrapreso un percorso difficile di rinnovamento che, alla lunga, è stato tradito – ricoprì (nel triennio 1981-84) l’ufficio di preside, dal quale si dimise l’11 luglio 1983, prima della naturale scadenza, per dissensi con indirizzi, rivelatisi maggioritari tra i Colleghi, relativi ai nuovi piani di studi.
Nonostante ciò, la nostra (la sua) Facoltà egli l’ha sempre amata in modo totale e ad essa è stato sempre vicino e fedele. «Caro Preside, – mi scrisse il 14 giugno 1999, ringraziandomi degli auguri, che essendogli succeduto (dopo Casavola e Pecoraro Albani) in quell’ufficio, gli avevo inviato il giorno prima – sono profondamente onorato, lieto e commosso per gli auguri in occasione del mio onomastico. Ringrazio vivamente Lei e tutti. Lei sa che io sono incapace di parole rotonde, ma che, se vi è bisogno di qualcuno che si getti nel fuoco per la Facoltà, basta dirmelo. Due ore di preavviso per salutare i miei cari, e vengo. Suo Antonio Guarino».
L’itinerario scientifico dello studioso è stato parzialmente (molto parzialmente) ripercorso da me, come da altri suoi discepoli e colleghi, in svariate occasioni. In esse ho cercato di ricostruire e illustrare i principii metodici e le molte acquisizioni di risultati scientifici innovativi che caratterizzano i suoi studi, intrapresi con la pubblicazione (nel 1937) della monografia sulla Collatio bonorum che, arricchita di una Nota di lettura di Enzo Giuffrè, Carla Masi e io abbiamo voluto ripubblicare in Antiqua nel maggio scorso per rendergli un ulteriore omaggio nel centenario della nascita. Testi scritti tutti nel suo modo terso, all’apparenza spontaneo, di fine e colto umanista, che sollecitano e appagano il bisogno di conoscenza degli studiosi e, non di rado, la tensione morale dei cittadini. Orientati sempre da un credo metodologico che non si stancava di praticare, più che professare, con un raffinato utilizzo della chiarezza e della semplicità espressiva, carica di valenze celate, talvolta graffianti.
«Io non so dire – scriveva in un libricino intitolato Giusromanistica elementare2 (2002) – come si faccia a scrivere un’opera di storia del diritto romano … Sia come sia, una cosa deve essere comune a tutti i romanisti e deve stare alle origini di tutte le loro ricerche: la lettura e l’interpretazione critica delle fonti. Operazione minuziosa, nonché 15
faticosa, nonché spesso noiosa, da praticarsi sempre con grande intensità».
Il problema scientifico del diritto romano – aveva precisato in un’utilissima opera intitolata L’esegesi delle fonti del diritto romano di cui curai nel 1968 l’edizione definitiva – «consiste nel ricercare i dati che possano servire alla sua palingenesi per le diverse epoche storiche … E siccome, purtroppo, il trascorrere del tempo e il volgere degli eventi han fatto perdere molti di questi dati e ne hanno sbiadito parecchi altri, è chiaro che la ricerca storiografica, per poter essere seria e fruttuosa, deve procedere secondo criteri metodici di massima oculatezza e sui binari di una critica (e autocritica) guardinga e penetrante». Avvertendo, a scanso di equivoci: «Per quanto si sottopongano a nuove e più meditate esegesi critiche, le fonti di cognizione di cui disponiamo sono ben lontane dal dare risposte univoche e inconfutabili al nostro desiderio di conoscere in modo soddisfacente l’ordinamento giuridico romano, cui si riferiscono. Ciò non dipende soltanto dalla loro limitatezza di numero, e frammentarietà. Dipende anche, se non prevalentemente, dalle diverse valutazioni dei romanisti. A volte, persino, da certe loro predisposizioni … Certo, uno storiografo non è degno di questo nome, se indaga con troppa flemma il tema prescelto e se lo tratta con la mentalità dell’archivista o del ragioniere. Il vero storiografo ‘opera a caldo’ e il calore che egli mette nella sua indagine non può non influire sulle sue diagnosi. Tuttavia egli deve cercare di mantenere sempre, quanto più possibile, un conveniente distacco critico dagli argomenti di cui si occupa (e, se possibile, anche un minimo di ironia verso se stesso)…».
E occorre dire che, anche grazie a una buona dose di autoironia, le sue opere mettono in chiara luce la sua forte e carismatica personalità di storico del diritto «mai rinchiuso nel recinto delle mere forme e tuttavia giurista rigoroso e razionale» formatosi alla scuola dura e civilmente impegnata di Siro Solazzi e (come è stata, ed è, tradizione dei veri romanisti italiani) a quella dei grandi maestri tedeschi.
A sua volta maestro dell’esegesi testuale, dunque, capace di annodare i severi testi del Corpus iuris con i versi più leggeri di Ovidio, conoscitore profondo di ogni aspetto dell’antichità classica, egli è stato soprattutto un «giurista». Questa mia affermazione non sminuisce la sua produzione storica, tutt’altro. Pone, piuttosto, in evidenza la vocazione alla soluzione del caso, del problema, da quello filologico a quello cronologico a quello del «dare a ciascuno il suo», che è l’essenza profonda del diritto, secondo l’interpretazione romana.
Nella sua vita egli ha continuamente cercato la soluzione di un problema (del presente come del passato) secondo giustizia. Spesso ha percorso vie meno battute, ha seguito o inaugurato «dottrine minoritarie» (si pensi alle sue tesi sulla codificazione dell’editto, per citarne una sola). Non (come altri) per presunzione o per épater ma per tentare nuove strade, consentite dall’interpretazione. Vie per ammodernare con serietà visioni giuridiche che l’occhio addestrato alla storia poteva ben valutare.
Tutto il diritto romano (pubblico e privato) è stato da lui passato al setaccio. Da argomenti fondativi dell’ordinamento giuridico (come le origini quiritarie, le vicende politico-istituzionali della repubblica, l’equità, la democrazia, la rivoluzione della plebe, la rivolta di Spartaco, il principato di Augusto) agli svariati campi del diritto privato. Dalle ricerche sulla societas (raccolti nel volume 48 di Antiqua, provvidi di nuovi importanti risultati sùbito sottolineati da maestri come Kaser e Wieacker e che ormai fanno stato in dottrina), agli studi sulle fonti (penso all’ampia preziosa Nota di lettura che volle premettere alla riedizione, sempre in Antiqua, vol. 50, delle Juristische Miniaturen di Gerhard von Beseler), alle tante «pagine vive» dedicate alla giurisprudenza romana. In particolare, al rapporto tra giuristi e potere imperiale nell’età del principato. Pagine tutte vòlte a mettere persuasivamente in luce che «l’orientamento, ‘il carattere’ del loro lavoro consistette nel difendere la tradizione giuridica della libera res publica contro l’irrompere dell’assolutismo». Cioè – per dirla con De Martino – a tutelare «la personalità individuale contro quelle tendenze di origine orientale, anche ellenistica, che invece miravano a fare del cittadino e, quindi, dell’uomo libero, il suddito di un signore o di un tiranno».
Anche molta parte del diritto vigente lo ha visto protagonista nel dibattito accademico e pratico. Oltre a pubblicare volumi e saggi di diritto e procedura civile (materie insegnate per incarico, quando necessario, nelle facoltà di Catania o Napoli), il professor Guarino, ha contributo al coraggioso rilancio, nel 1946, della rivista Diritto e giurisprudenza, «il primo periodico di area giuridica – ha sottolineato Pietro Rescigno – apparso in Italia nell’immediato dopoguerra nel solco delle ritrovate libertà e del nascente ordinamento democratico», di cui è stato prima condirettore poi a lungo direttore.
Egli, insomma, è stato in grado di discutere proficuamente, e con molta autorevolezza e originalità, non solo con i grandi giuristi del passato, ma anche e con non minore efficacia con quelli del presente, con i giudici, con i più illustri avvocati (amava ricordare di aver vinto una causa contro De Marsico, di cui era un fan). E lo ha fatto sempre in una tensione morale altissima, tesa a far comprendere l’importanza centrale del diritto nella nostra società anche all’uomo della strada, che in genere (scrisse in Tempi e costumi, del ’68) non lo conosce «oppure ne ha una nozione superficiale e distorta: come una grande macchina di sortilegi, piena di congegni strani e bizzarri, che solo gli avvocati possono far funzionare, e male».
Egli fu, tra l’altro, conferenziere di grande successo, dalla vena fresca e brillante, che avvinceva gli ascoltatori di ogni condizione culturale in una meraviglia continua, cercando sempre con la naturalezza della parola di sembrare semplice (di una semplicità coerente con la limpidità del pensiero) nel trattare gli argomenti più complessi e renderli accessibili. Detestava gli azzeccacarbugli, i paglietta e quei colleghi che, per darsi un’aria colta e coprire il vuoto d’idee, infarciscono il loro dire con sentenze dotte, massime latine, regulae iuris, pomposi luoghi comuni, e danno l’impressione di una recita infinita, vuota, desolante.
«Il linguaggio – ammoniva – sia semplice ed esente da termini difficili non strettamente necessari: molti autori che parlano ogni due e tre di epistemologia, di paratassi, di stilemi e via pilluccando, lo fanno per nobilitare (secondo loro) il discorso avvalendosi spesso dell’aiuto di un dizionario dei sinonimi. Questo va usato invece al fine opposto, per rendere più familiare l’esposizione». Sul «pagliettismo di ritorno» scrisse un memorabile ferocironico articolo su Repubblica nel luglio 2012. Si arrabbiava con i cialtroni che (precisava) ci sono non solo in certi mondi. Arrivò a «dimettersi per iscritto da napoletano» ai tempi di un’amministrazione comunale che lui e io credevamo (sbagliando) fosse la peggiore che potesse capitare alla nostra città.
Sportivo da giovane (tennis e vela), era di natura riservata, attenta alle forme e alle tradizioni accademiche, timida in realtà e dotata di umanità forte. Tuttavia connotata da un impasto di scetticismo esistenziale e di slanci rattenuti, che si schiudevano in manifestazioni di affetto e partecipazione paterna specialmente verso i collaboratori. Esposta anche, ogni tanto, a momenti di ira e di pessimismo. Come se avesse il rimpianto di non esser riuscito a realizzare qualcosa in più delle molte e importanti che pure, da «realizzatore d’istinto», era riuscito a fare. Nel rapporto con gli allievi, ai quali era profondamente legato da affetto possessivo, si è rivelato così, con alcuni e in certi momenti, come qualcosa di irrisolto, di stranamente conflittuale.
Soprattutto dopo la scomparsa della amatissima signora Marina, soffriva la solitudine. Alleviata (diceva) dall’affetto, geograficamente lontano, di Federica e dalla vicinanza e dalla dedizione assidua di Giancarlo. In realtà, spesso, la solitudine, il veleno più grande per gli anziani, era lui stesso a procurarsela. Confidò nel 2008 in una pagina scritta come premessa a un mio libro: «Labruna condivide con me la dote, o forse il difetto, di essere sincero e di non esitare ad esprimersi di conseguenza, … [ma] è di carattere felicemente estroverso, a differenza di me, che sono introverso e i fatti sgradevoli li denuncio, sì, ma poi mi incupisco e non la finisco più col malumore».
A quel suo non raro umore nero, si aggiunsero negli ultimi anni la sofferenza fisica, frutto inevitabile anch’essa della vecchiaia, e un sentimento di accorato pudore che lo spingeva a cercare l’isolamento che pur temeva. «Non venga; non ho voglia di farmi vedere per come son diventato» diceva al telefono, salvo poi ad essere palesemente felice (e a scrivermelo) le volte in cui, forzando la 21 sua riluttanza, andavo a trovarlo in via Aniello Falcone.
Mi tratteneva a lungo nel suo sancta sanctorum tappezzato di libri. Mi faceva accomodare sulla bassa poltrona di fronte alla sua, dove ai vecchi tempi (quando potevamo), dopo l’immancabile caffè, fumavamo lui una delle sue dunhill, io una delle mie consunte chacom, e, da seduto, appariva solo smagrito, col volto scavato, con molte tracce ancora del «normanno alto oltre misura, snello, biondo, dagli occhi celesti penetranti e terribili» di quando, giovane, al ritorno dalla guerra (così lo descrisse un collega, Cosentini) iniziò a insegnare a Catania. Era, quando si alzava, sofferente e curvato in due e ti veniva incontro, da vecchio gentiluomo, per riceverti e poi per accompagnarti alla fine della visita verso l’ingresso appoggiandosi ad un trespolo ortopedico, che si rivelava tutto il peso della straordinaria età raggiunta.
Conversare con lui anche negli ultimi tempi, pur quando talvolta sembrava faticasse a reggere a lungo il colloquio, ha continuato a essere un arricchimento, uno stimolo e, per tanti versi, ancora una sorpresa. Perché lo si ritrovava non solo conoscitore e memore dei tanti saperi che i romani volevano raccolti nella sapienza del giurista e della letteratura latina, greca, dell’umanesimo italiano ed europeo. Lo si scopriva sempre più ricco di una varietà e molteplicità di reminiscenze (spesso taglienti) di esperienze accumulate nella vita lunghissima che riviveva e rivelava.
Tutti i suoi libri, pur quelli di carattere più strettamente scientifico, lasciano intravedere molto del suo vissuto: fatti, dottrine, sentimenti, persone, convincimenti tratti dall’osservazione del loro operare e dalla lettura quasi maniacale delle tante pubblicazioni che da tutto il mondo gli arrivavano perché ne desse conto in Labeo. Penso alla molteplicità di «volti, profili, ricordi» di storici o giuristi nonché ai tanti abbozzi, spunti per nuove ricerche, appunti graffianti racchiusi – insieme con saggi di fondamentale rilievo scientifico – nei sei volumi delle sue Pagine di diritto romano, pubblicate dal 1993, e poi nelle Nuove pagine di diritto romano (2010), ovvero nei Sarchiaponi giuridici (2002) o in La coda dell’occhio (del 2009), o ancora (e mi fermo qui) nei Trucioli di bottega. Ricordi e rilievi qua e là di uno storico del diritto (in seconda edizione nel 2013, a 98 anni!).
Gli bastavano pochi tocchi per evocare atmosfere vissute: il cupo gelo del fronte russo – per dire. Dove, al ritorno dalla breve licenza matrimoniale in Italia, ottenuta, a sua insaputa, dalla futura moglie, trovò che i soldati del presidio che lo avevano festeggiato sei giorni prima, alla partenza da Nikolajewka, erano stati annientati («come potrò mai dimenticare … il senso di vergogna che provai e tuttora provo nei confronti dei miei perduti camerati…», scrisse anni dopo). Oppure la «filosofia sorridente, tutta napoletana» di Arangio che, negli anni ’30, al ritorno dai frequenti, «inevitabili» viaggi a Roma, ai figli, che avevano la «maliziosa consuetudine» di chiedergli dalla finestra a gran voce, quando lo vedevano scendere dal taxi, «come stesse una certa persona», allargando le braccia e levando sconsolato gli occhi al cielo, rispondeva: «sta bene, sta bene, sta benissimo!».
E così in poche battute era capace di tracciare immagini vivide di colleghi, allievi, maestri conosciuti in tanti anni di studio e insegnamento. In Italia o in Germania alla vigilia del conflitto: tra di loro non pochi giuristi ebrei che, «per la loro fermezza e il valore scientifico universalmente riconosciuto, nonché per la solidarietà di spiriti liberi che non mancavano», – scrisse – i regimi nazista e fascista non riuscirono a far tacere e segregare in un ghetto di silenzio e di orrore. E poi, soprattutto a Catania e qui a Napoli, dov’era un continuo fluire di studiosi d’ogni parte d’Europa, per perfezionarsi alla sua scuola. Né esitava a smontare con una frase le albagie dei non rari cattivi maîtres à penser che come stelle cadenti ogni tanto appaiono e scompaiono rapidamente nei cieli accademici. O ancora per delineare con rigore scientifico e acribia, nelle centinaia di Tagliacarte che affollano le annate di Labeo, le linee di sviluppo della ricerca romanistica internazionale della seconda metà del Novecento e del primo decennio del Duemila. «Pezzi tutti assai brevi» che – volle sottolineare – danno «il gusto mio personale» per il parlar e per lo scrivere in poche battute. Precisando: « … sia chiaro che io ammiro molto le opere in mille pagine. [Ma] io sono di nazione napoletana. Di una nazione in cui (contrariamente a quel che pensano molti) il parlare è di solito rapido ed essenziale. E ricorderò, a mio conforto, che quando al San Carlo, molti anni fa, alla prima del Tristan und Isolde di Wagner il velario si chiuse dopo la straziante scena finale della morte, uno spettatore riscosse in sala qualche sentito consenso per aver pensierosamente mormorato: “Quant’ è bella ’a morte ’e subbeto”».
Non vorrei che, sia pure inespressi, pensieri siffatti si affaccino alla vostra mente. Conosco la misura del tempo e son consapevole delle culture, competenze, interessi, ed esperienze che rappresentate e che costituiscono ricchezza preziosa delle nostre due antichissime istituzioni accademiche a cui il mio maestro era onorato di appartenere da oltre mezzo secolo (dal 1956 alla Società Nazionale, dal ’68 alla Pontaniana). Orgoglioso (come io lo sono) di aver avuto in esse come predecessori tra i romanisti – che, naturalmente, rappresentano una ridotta minoranza dei soci di entrambe – personalità di eccezionale statura e ineguagliato prestigio quali Scialoja, Baviera, Solazzi, Arangio-Ruiz, Lauria, De Martino. Inoltre, come sapete, nell’ambito della giornata di studio organizzata in memoria del Professore, questa mia commemorazione sarà seguita nel pomeriggio – in quella che è stata la sua Facoltà e nella quale, da professore emerito, oltre che da antico preside, ha fatto sentire fino all’ultimo, a pieno titolo, la sua voce – da altri interventi, vòlti ad esplorare aspetti diversi della sue molteplici attività. Dalla relazione di Settimio di Salvo, uno degli ultimi suoi allievi che, appena brillantemente laureato, il professore mi affidò quando insegnavo a Camerino e che ho poi seguito e sostenuto nel suo percorso accademico sino all’ordinariato e alla sua chiamata a Napoli sulla cattedra che (dopo Guarino) è stata di Guizzi, Giuffrè e mia. Dalle testimonianze di Vincenzo Siniscalchi, avvocato di fama, a lungo assistente volontario alla cattedra di Istituzioni, e della giornalista Tiziana Cozi. E, soprattutto, dalla lezione su Guarino e il diritto romano dell’amico Giovanni Nicosia, esponente di assoluto rilievo di quella Facoltà catanese in cui il Professore intraprese (come si è detto) la carriera accademica, fondò e diresse per decenni, con Cesare Sanfilippo, la rivista Iura e dove formò i suoi primi allievi. A cominciare da Santi Di Paola, troppo presto scomparso e al cui ricordo – come a quello dei molti, troppi, compagni di lavoro napoletani che via via negli anni ci hanno lasciato: Ninni Mozzillo, Gloria Galeno, Gennaro Franciosi, Lucio Bove, Generoso Melillo – il Professore è rimasto sempre legato da vivo affetto e solidarietà.
I suoi celebri manuali innanzi tutto. Credo non vi sia laureato in Giurisprudenza a Napoli negli ultimi sessant’anni che non abbia studiato, o almeno letto, quello di Istituzioni. Si tratta di un opera di grande impegno e originalità che si presta – come è stato sottolineato da coloro che ne hanno più volte analizzato genesi, profilo sistematico, contenuto, articolazioni – ad un doppio livello di lettura. Giacché, da un lato, offre agli studenti un panorama chiaro, approfondito e completo della materia, arricchita con cenni relativi agli ordinamenti giuridici moderni (in specie al diritto privato italiano vigente) e, dall’altro, segnala agli studiosi spunti di ricerca utili e suggestive ipotesi ricostruttive. Non di rado, poi, indica soluzioni critiche originali, ma sempre fondate su rigorose analisi esegetiche, di problemi scientifici controversi, ponendosi anche così al centro del dibattito storiografico contemporaneo più avvertito.
Quanto allo schema dell’opera – come ha scritto egli stesso nella «premessa» all’edizione del 2001 – si tratta di «uno schema tendenzialmente “moderno”». Aggiungendo: «se si è convinti, come io lo sono, che la proposizione della storia giuridica sia indispensabile all’insegnamento nelle facoltà di giurisprudenza per la formazione di autentici giuristi, è necessario trarne la conseguenza che l’esposizione elementare del ius Romanorum e del ius privatum romano, pur rispettando la verità storica degli istituti e delle loro vicende attraverso i secoli, debba cercare di adeguarsi, beninteso non oltre i limiti del possibile, al linguaggio e alla sistematica usati nella esposizione degli ordinamenti giuridici contemporanei. Ciò allo scopo di non frastornare eccessivamente il lettore e di facilitargli la comparazione tra la realtà del diritto vivente e l’esperienza di un importante diritto del passato. Le esposizioni che prescindono da questa costante attenzione sono quasi altrettanto inutili alla preparazione dello studente quanto lo sono quelle (purtroppo sempre più numerose) che riducono la materia ad un banale e inorganico riassunto di nozioni e di curiosità su Roma antica».
Concetti sostanzialmente non diversi da quelli più volte ripetuti nelle prefazioni alle svariate edizione dell’altro suo famoso manuale, dedicato alla Storia del diritto romano: «Non so se e quanto sia apprezzabile il mio tentativo, particolarmente là dove è volto ad individuare e ad isolare i caratteri generali del “giuridico” (o, più esattamente, dell’istituzionale) nel seno delle multiformi vicende sociali e politiche di Roma e del mondo romano: vicende che, appunto, allo scopo di storicizzare i discorsi, ho sempre tenuto a richiamare brevemente in testa ad ogni capitolo». Tale metodo – sottolineò allora – ha aiutato gli studenti di giurisprudenza «ad esercitarsi nella “comparazione diacronica” tra i diritti vigenti e l’importante esperienza giuridica romana» non solo. Ma anche a «intravvedere, fra tanti istituti e avvenimenti temporalmente lontani, le ragioni profonde sia del riprodursi in veste moderna di certe antiche e inossidate strutture, sia (e più spesso) dell’abbandono progressivo di certe altre soluzioni, quindi dell’adozione moderna, specialmente in materia (come suol dirsi) pubblicistica, di istituzioni nuove, forse in molti casi migliori».
Bene. Sulla essenzialità di una seria conoscenza del diritto romano nella formazione dei giuristi (più o meno moderni che siano) non credo occorra spendere qui parole. E così sul sacrosanto rilievo del Professore relativo alla impossibilità che tale adeguata conoscenza possa esser assicurata dai tanti manualetti, sunti, compendi, calepini che oggi dilagano negli Atenei, in corrispondenza con la insensata «riduzione in pillole» di discipline essenziali (non solo delle romanistiche), somministrate per di più, per così dire «intensivamente», per un «semestre» a corso (cioè per un paio di mesi effettivi di lezioni), da docenti che non di rado – a causa di improvvide spinte corporative e pavidi lassismi accademici (per non dire altro) sono tali soprattutto di nome.
Sono sotto gli occhi di tutti gli effetti devastanti di questo stato di cose che ha contribuito non poco a vanificare il ruolo formativo e sociale dell’istruzione superiore. E a far sì che il necessario processo di trasformazione dell’università di élite in università di massa nel nostro Paese sia diventato in molti casi – mi spiace ripetermi, l’ho più volte detto, ma è così – fattore di dissipazione di risorse intellettuali, materiali ed etiche piuttosto che (come doveva essere e come in molti avevamo immaginato che fosse) incentivo al progresso della ricerca scientifica e all’accrescimento delle qualità e della diffusione delle conoscenze.
Sulla necessità di adeguare la trattazione e l’insegnamento del diritto romano «al linguaggio e alla sistematica degli ordinamenti giuridici contemporanei», anche per consentire quella comparazione diacronica che si è detto, nutro invece qualche dubbio. Sono persuaso, infatti, che la storia delle forme giuridiche romane (come del resto quella di ogni altra organizzazione sociale) non è tanto lineare ed univoca da poter essere racchiusa in formule sostanzialmente decontestualizzate dalle realtà economico-sociali e di potere che si stabiliscono e si intrecciano nei vari momenti e la connotano e ne determinano trasformazioni e relazioni, mai univoche e unidirezionali. Sicché mi pare necessario, sul piano del metodo, essere molto vigili. E rifuggire per il possibile, anche nella didattica, da ogni fuorviante modernizzazione dei concetti e delle culture delle varie società ed epoche storiche che siamo abituati a ricomprendere nella definizione di «romane».
Ne ho più volte discusso, con il dovuto rispetto, con il mio maestro, il quale (come egli scrisse di Arangio-Ruiz) «solo nelle relazioni mondane era una persona cordiale e tollerante, ma in realtà, quando si trovava sul lavoro, non aveva molte remore, occorrendo, a dir pane al pane e vino al vino» ed era, insomma, «un giudice severissimo» (ricordo ancora la fatica che dovetti impiegare per convincerlo che ero nel giusto a voler dar credito, da giudice in un concorso, ad un allievo suo, non mio, in un periodo di personale difficoltà di quel giovane studioso).
Ebbene su molte delle osservazioni che innanzi ho formulato a proposito dei manuali il Professore, che (per dirla con Casavola) andava convertendosi ormai «dai giovanili interessi di teoria generale al còmpito più proprio di una scienza storica», era fondamentalmente d’accordo. Lo dimostrano, oltre ai suoi saggi di straordinario spessore di diritto pubblico romano, che innanzi ho citato, quello, esemplare, su Forma e materia della costituzione romana, redatto nel 2006, cioè quando aveva 92 anni, per il primo dei volumi su Tradizione romanistica e Costituzione, da me diretti nel cinquantesimo anno di attività della Corte Costituzionale su invito del suo presidente di allora, o i suoi Studi di diritto costituzionale romano raccolti da Cosimo Cascione in due volumi, che pubblicai in Antiqua nel 2008 con una densa (e istruttiva) Nota di lettura redatta ad hoc dal Professore che aveva frattanto compiuto 94 anni. Nonostante ciò, egli è rimasto egualmente convinto che le categorie ermeneutiche ed espositive da lui utilizzate nei suoi manuali fossero le più giuste ed efficaci per trasmettere e far intendere ai giuristi d’oggi la realtà giuridica romana.
Mi sono sforzato di capire più a fondo le ragioni di questa sua propensione. Ebbene io penso che la vocazione per la ricostruzione di un sistema derivava in non piccola parte (come si è accennato) dalla sua giovanile formazione di magistrato, che per vincere il concorso (se ben ricordo, nel 1939) aveva dovuto superare, tra le quattro prove scritte, «quella, temutissima, dello svolgimento in otto ore di un tema integralmente relativo al diritto romano». Prova oggi abolita (a quel tempo «ridicolmente surrogata» – diceva – dalla richiesta di cenni storici sui precedenti romani) con la conseguenza di eliminare per i futuri giudici «la necessità di misurarsi con l’esegesi di un certo numero di testi giuridici romani». E, con essa, la possibilità per le commissioni giudicatrici «di soppesare con la opportuna misura la loro maggiore o minore attitudine a svolgere quella che è pur sempre l’attività basilare (anche se non certo l’unica) di un magistrato degno di rispetto: l’attività consistente nell’interpretare in tutte le loro pieghe i testi di legge, senza farsi passivamente molto influenzare, pur prendendone adeguata conoscenza, dai precedenti scaturiti da decisioni anteriori, dai dettami della cassazione, dalle opinioni dei giuristi, per non parlare della irrilevanza assoluta che hanno e devono avere le proprie (quali che siano) idee sociali e politiche».
Oltre che dalla sua esperienza di magistrato, io credo che i convincimenti metodici del Professore di cui stiamo parlando si siano consolidati nella prassi del suo insegnamento a Catania (dove forte era, soprattutto allora, l’influenza della impostazione riccoboniana) e poi a Napoli dove, prima dell’arrivo di Leonardo Coviello jr., tenne anche l’incarico di Istituzioni di diritto privato a Scienze politiche, allora corso di laurea interno a Giurisprudenza, facoltà in cui il suo insegnamento romanistico istituzionale servì inoltre, non di rado, anche a introdurre gli studenti neo-iscritti alla conoscenza del diritto privato moderno per superare difficoltà contingenti provocate talora (ma non solamente) dall’avvicendarsi dei titolari di quell’importantissimo insegnamento.
Quando nel 1954 mi immatricolai, ad esempio, era stato da poco chiamato a ricoprire Istituzioni di privato Domenico Rubino, che viveva ed esercitava la professione di avvocato a Roma. Nel breve periodo in cui tenne cattedra da noi (fu chiamato tre anni dopo, nel ’57, alla Sapienza), adempiva i suoi doveri didattici nella nostra città accuratamente, ma vi si tratteneva soltanto il tempo strettamente necessario.
Credo per riguardo verso i colleghi che lo avevano preceduto, Rubino, poi, aveva confermato come libro di testo le Istituzioni di diritto privato di Carmelo Scuto, manuale di impostazione storico-dommatica, la cui V edizione usata all’epoca (mi pare del ’50, ristampata nel ’52) era una rielaborazione (non molto riuscita, in verità) di un manuale, ormai obsoleto, pensato e scritto nel 1931, cioè ben prima della codificazione del ’42, e – come recitava il frontespizio – rivisto «per quanto possibile, con riguardo alle disposizioni del nuovo codice civile e aggiornato in conformità alle principali norme della Costituzione della nostra Repubblica». In questa situazione, egli consigliava ai più solerti fra noi di studiare anche su di un’opera più recente e affidabile (io scelsi, quasi per reazione allo Scuto, il Sistema istituzionale del diritto privato italiano di Domenico Barbero, dall’impostazione ampiamente antipositivistica).
La maggior parte degli studenti, tuttavia, studiava soltanto sul testo indicato nel programma ufficiale, che in ogni caso tutti dovevamo conoscere giacché della commissione d’esame faceva parte un severissimo professor «Scuto figlio», che esigeva dimostrassimo di aver imparato a menadito il libro del padre.
Il professor Guarino – che, oltre a tenere scrupolosamente lezioni di Istituzioni e di Esegesi qualsiasi cosa accadesse (lo fece persino il giorno della scomparsa del suo venerato maestro Solazzi), passava ore e ore con gli studenti e i laureandi agli Istituti giuridici seguendoli (aiutato da Casavola, Guizzi, Galeno, Ormanni, Siniscalchi ecc.) in esercitazioni di gruppo, seminari, revisione di còmpiti scritti, colloqui selettivi – si rendeva ben conto della situazione e orientava di conseguenza la sua didattica nel modo che ho descritto.
Per di più, sulla cattedra parallela di Storia il professor De Martino, senza offrire agli studenti un quadro istituzionale (anzi dando per scontato che questo fosse miracolosamente conosciuto), approfondiva ogni anno esclusivamente la materia racchiusa in uno dei volumi, che all’epoca andava periodicamente pubblicando, della sua grande Storia della costituzione romana. Un’opera «lavica» (così la definì, celebrandola, il Guarino) che non tratta sistematicamente della costituzione romana, ma che fa pensare «al fluire della lava di una lenta eruzione ed al formarsi degli strati di magma solidificato che si sovrappongono l’uno all’altro, man mano che la cangiante vicenda politica si rassoda e diventa istituzione, diventa cioè “costituzione” dello Stato». Per decenni le matricole di Giurisprudenza napoletane, per superare l’esame di Storia, ne dovettero studiare solo un volume, sviscerando esclusivamente le vicende giuridiche della più o meno limitata epoca storica in esso trattata. «Era pertanto indispensabile – scrisse, anni dopo, il professor Guarino – «tenerli almeno sommariamente informati di ciò di cui il volume adottato per quel singolo anno non esponesse». E così – «dato che fra De Martino e me (raccontava) non è mai esistita rivalità, anzi è intercorsa sempre una tacita intesa, invano insidiata talvolta, per miserie di bottega, da altri» – quella «grossa difficoltà» fu superata facendo sì che fosse lui («anche nell’interesse dei miei studenti di Istituzioni», scrisse) ad accollarsi il còmpito di fornire i necessari inquadramenti modulando di conseguenza programmi, metodo, manuali e tipo del suo insegnamento del diritto. Che è – scrisse – «una cosa molto più seria» di ciò che molti «si figurano» e del quale perciò, in un libriccino del 1996 edito da Jovene, volle tracciare a loro beneficio un prezioso «identikit».
Un «identikit – spiegò – e non dico “uno schizzo” perché ormai in Italia, con l’anglomania che imperversa, pochi mi capirebbero». Un identikit – aggiunse con ironica preveggenza delle elucubrazioni che critici prevenuti che mai mancano o, peggio, saputi laudatores d’occasione avrebbero poi fatto in proposito – «che strizza l’occhio alla così detta teoria generale del diritto e che, come tutti gli identikit, somiglia alla realtà da identificare in modo molto approssimativo».
Molti (forse troppi) fili si sono intrecciati nella trama di considerazioni, richiami e risonanze con cui ho cercato di tenere congiunti nel mio discorso – come credo sia necessario per intendere la personalità di ogni vero studioso – biografia e pensiero del mio maestro. È tempo che chiuda. Anche se ciò significa rinunciare (per oggi) persino ad accennare a tante altre sue opere di raro valore.
Non posso tuttavia, terminare senza riconoscere ancora una volta – con la gratitudine e la fierezza di essere suo allievo (i maestri li scegli o ti scelgono; non capitano a caso) – il debito grande (grandissimo) che sento di avere (e che, credo, tutti noi abbiamo) verso di lui. I traguardi nelle vite degli uomini suggeriscono sempre molte riflessioni, Soprattutto in un’ora come l’attuale, in cui volge alla fine il vecchio mondo e si apre un periodo in cui, spersi in una postmodernità che tende ad azzerare ricordi, entusiasmi, genuina passione politica e reale partecipazione civica, è arduo anche coltivare speranze. Abbiamo bisogno, perciò, oggi più che mai, di exempla. Da custodire e, per il possibile, da trasmettere. Antonio Guarino un exemplum, un modello, lo è stato (e lo è) certamente per me. Spero (e voglio credere) lo sia (o lo diventi) anche per molti altri.